Dario Fo, grande artista e pessimo agitatore politico

È morto Dario Fo, uno dei più grandi artisti della nostra epoca. A suo tempo ho esultato quando gli venne assegnato il premio Nobel, come oggi esulto per quello conferito a Bob Dylan. Ma Fo è stato anche un grande agitatore politico e del suo pensiero politico è impregnata tutta la sua arte. Se ci si deve inchinare di fronte all’universalità del suo teatro, credo sia legittima anche una riflessione sul suo settarismo ideologico, spesso contraddittorio.

Ho rabbrividito quando ho sentito cantare Bella ciao al suo funerale. Dario Fo, a 18 anni, è stato un ragazzo di Salò. In quell’epoca drammatica io avevo 11 anni e so per esperienza come i giovani, fin dalla nascita, venissero indottrinati senza potersi documentare sui pensieri alternativi a quello dominante. Ma è pur vero che molti diciottenni, invece di arruolarsi volontari nelle truppe di Salò, preferirono rifugiarsi sui monti per rischiare la vita nella lotta partigiana. Bella ciao era il loro inno e non può essere usurpato in omaggio a chi si batteva sul fronte opposto. Carlo Azeglio Ciampi ci ha ammonito con lucidità, a questo proposito, che “nel 1943 il conflitto non era più fra Stati ma fra principi, fra valori”.

Anche Eugenio Scalfari, il fondatore de La Repubblica, è stato a 18 anni fascista: scriveva articoli sui giornali del Regime ma, pur essendo anche lui un ingenuo indottrinato, prese pian piano coscienza della realtà, e i suoi articoli apparvero sempre più non in linea con i rigidi dettami del Regime, e nel 1943 fu espulso dal Partito fascista. In seguito non cercò di cancellare le tracce del suo passato, non convisse con la doppiezza di una rimozione nascosta, comune alla maggior parte degli ex fascisti, per fabbricarsi una verginità democratica.

Dario Fo invece si arruolò volontario nelle truppe di Salò per evitare, questa la sua versione, di essere deportato in Germania. Quando un piccolo giornale di Novara, verso la fine degli anni 70, rivelò il lato nero dell’icona della sinistra extraparlamentre, Fo sporse querela, asserendo di essere stato un infiltrato della Resistenza tra le brigate nere, citando la data e il nome di chi gli avrebbe dato l’ordine. Ma un capo partigiano lo smentì duramente rivelando al processo che il personaggio che gli avrebbe ordinato di infiltrarsi era morto molti mesi prima di quella data. E nella  sentenza (a cui Fo non si appellò) si legge: “È legittima per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”.

Tutta la vicenda è imbarazzante, penosa, umiliante soprattutto per chi divenne in seguito fustigatore di costumi, attivista di Soccorso rosso militante e l’antagonista per eccellenza. A suo disdoro vorrei ricordare la difesa a oltranza degli estremisti rossi, autori del rogo di Primavalle, in cui morirono due giovani colpevoli essere i figli di un fascista. E inoltre la campagna diffamatoria  contro il commissario Calabresi identificato, in Morte accidentale di un anarchico, nel poliziotto dottor Cavalcioni che, per spaventare i sospettati (Pinelli), li metteva pericolanti sul davanzale di una finestra.

 Oriana Fallaci, da lui e Franca Rame definita “terrorista”, replicò definendo Fo “un fascista, prima nero poi rosso”. Dario Fo, in definitiva, è stato (come ha scritto Luigi Amicone, uno che ha fatto un percorso inverso: da Avanguardia Operaia a esponente dei teocon italiani.) “fascista, repubblichino, antifascista, comunista, extraparlamentare di sinistra, per finire la sua carriera tra le file dei Cinquestelle… Giullare del giullare Beppe Grillo”.

A dimostrazione che si può essere grandi artisti e pessimi agitatori politici.

 

 

 

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