Lettera ad Aldo Cazzullo – Corriere della Sera
Gentile Aldo Cazzullo,
le scrivo perché la mia voce (e sono certo ce ne saranno state tante altre più autorevoli della mia) le giunga per compensarla di tutte quelle, ignobili, che la hanno indotto a iscriversi – ironicamente – nella categoria dei “perseguitati”.
All’età di 11 anni ho intrapreso una sorta di “guerra” personale contro i nazifascisti, piccola ma rischiosa guerra le cui vicende ho rievocato nel libro che le allego anche se temo non avrà il tempo di leggerlo.
Quelli della mia generazione che hanno sofferto i giorni dei bombardamenti e dello sfollamento, che hanno assistito alle violenze e alle repressioni nazifasciste, hanno sempre creduto con fermezza a una Resistenza nazional-popolare intesa come un’epopea che ha ridato al Paese dignità e libertà. E questa idea è rimasta anche se ognuno, maturando con gli anni, ha fatto la sua particolare rivisitazione di quel periodo storico e, al di là dell’oleografia ufficiale, ha compreso le contraddizioni e le contrapposizioni degli uomini che l’hanno fatta, l’ostilità reciproca tra i diversi gruppi partigiani spesso ideologicamente divisi ma uniti tutti da un unico fine: sconfiggere il fascismo e riconquistare un Paese libero. Oggi che la maggior parte dei protagonisti della Resistenza sono scomparsi, dobbiamo far tesoro delle loro memorie perché le memorie dei singoli contribuiscono a creare la Storia di un Paese e, a mio avviso, un popolo che non ha una memoria collettiva del proprio passato non ha identità, non ha un senso comune di appartenenza. Non ha Patria. E il suo libro “Possa il mio sangue servire” è di certo uno dei contributi più alti alla conoscenza di una Resistenza dimenticata, troppo spesso ignorata o, peggio ancora, mistificata.
Da qualche tempo in seno alla cultura italiana è in atto un lacerante dibattito revisionistico sulla storia e sull’importanza della Resistenza. Alcuni storici hanno addirittura teorizzato la “Morte della Patria”, volendo significare che, con il disfacimento dell’esercito italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si sarebbe dissolto anche il sentimento collettivo di amor di Patria e che ancor oggi il nostro Paese non avrebbe un’identità nazionale. L’Italia, secondo Ernesto Galli Della Loggia, il principale sostenitore di questa tesi, sarebbe ancora oggi “una democrazia senza Nazione”.
La teoria revisionistica, secondo la quale la Resistenza italiana sarebbe stata solo un movimento minoritario e di parte, cozza contro l’evidenza dell’opposizione armata di tanti reparti del nostro esercito a quello tedesco, opposizione in gran parte colpevolmente dimenticata anche ad opera di una cultura che voleva (per finalità opposte a quelle degli attuali revisionisti) avvalorare la tesi di una Resistenza quasi esclusivamente “di parte”, sottacendo tra l’altro gli errori e gli inevitabili eccessi “di quella parte”. Una cultura anche trasversale che, per motivi di “realpolitik”, dimenticò i trucidati nelle foibe e le altre stragi compiute in Venezia Giulia dai partigiani di Tito.
I numerosi fatti d’armi accaduti nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, in tutta Italia e anche all’estero (“Cefalonia” è stata riscoperta solo da qualche anno), testimoniarono la fedeltà al giuramento di una parte significativa dell’esercito italiano. E la scelta di tanti nostri soldati di non arrendersi ai Tedeschi va accomunata a quella degli oltre seicentomila militari italiani internati in Germania che rifiutarono di aderire a Salò in cambio della libertà. Queste scelte consapevoli, assieme alle tante insurrezioni popolari (emblematiche le “quattro giornate di Napoli” e le “tre giornate di Lanciano”) e soprattutto assieme alla protezione spontanea fornita, a rischio della vita, dai singoli cittadini a partigiani, ebrei e prigionieri di guerra fuggiaschi, queste scelte consapevoli smentiscono clamorosamente la teoria della “Morte della Patria” e dimostrano che una parte consistente del nostro esercito e della popolazione civile si batté per difendere i valori della Patria e della sua continuità, ben prima della costituzione delle Brigate Partigiane, ponendo quindi le basi di quel movimento nazional-popolare che indubbiamente fu la Resistenza al fascismo.
E, a proposito del tentativo revisionista di mettere sullo stesso piano “i ragazzi di Salò” e i giovani che si batterono contro il fascismo, il presidente Carlo Azeglio Ciampi ci ha ricordato che, anche se quello odierno deve essere il tempo della pacificazione, “nel 1943 il conflitto non era più fra Stati ma fra principi, fra valori”.
Le ho scritto questo sproloquio per ringraziarla.
Le pagine di “Possa il mio sangue servire” sono intrise delle mie lacrime che non credo siano state solo il frutto della orrida emotività senile che mi affligge e che tanto odio.
Grazie, grazie ancora per avermi fatto sentire meno solo in questo disgraziato ma tanto amato Paese




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